Tamponi impossibili
Il problema che si è manifestato in maniera prepotente nella gestione della pandemia è stato il fatto di lasciare in secondo piano molte categorie di persone. Moltissime procedure messe in piedi per la gestione dell’emergenza sanitaria non hanno tenuto conto dell’esistenza di Stp e tesserini Eni e altri sostitutivi della tessera sanitaria. E la mancanza di considerazione di questi due titoli di accesso al Sistema sanitario nazionale ha reso quasi impossibile per i titolari l’accesso alla diagnosi, quindi ai tamponi e alla vaccinazione”. Cecilia Fazioli, direzione sanitaria dell’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie della povertà (Inmp) e medico del poliambulatorio dell’Istituto a Roma.
Invisibili al sistema
Per accedere ai tamponi, per esempio, occorreva la ricetta dematerializzata: “Questo - prosegue Fazioli - ha creato molti problemi ai titolari di Stp ed Eni perché per i primi funziona solo a volte e con difficoltà, ovvero la ricetta non arriva, e nel secondo caso non è proprio possibile emettere la ricetta dematerializzata, in quanto i codici Eni sono validi solo a livello regionale e il sistema di gestione non li accetta. E un conto è chiamare il medico di famiglia per farsi prescrivere il tampone, un altro conto è dover contattare gli ambulatori che solitamente sono aperti per queste categorie di persone quando c’è la pandemia in atto: non si poteva uscire di casa, gli ambulatori hanno iniziato a ricevere solo su prenotazione, a restringere gli orari, in alcuni casi hanno chiuso.
Se già prima della pandemia avere un’impegnativa era complicato, nel 2020 il problema è emerso in maniera plateale in quanto non esistono procedure standardizzate che garantiscano l’accesso alle cure a queste persone. Per i titolari di Eni e Stp si sono dunque moltiplicate le difficoltà di entrare in contatto e comunicare con il Sistema sanitario nazionale. Di fatto sono diventati invisibili al sistema di gestione e dunque al Sistema sanitario nazionale”.
Una soluzione possibile? “Standardizzare i percorsi per chi ha diritto ad accedere al Servizio sanitario nazionale”.
Il ritardo nelle diagnosi
I problemi di accesso a tamponi, visite e prescrizioni di farmaci dei tanti soggetti invisibili non sono rimasti senza conseguenze.
Secondo uno studio dell’Istituto superiore di Sanità pubblicato sullo European Journal of Public Health a febbraio 2021, per esempio, i casi di Covid in cittadini non italiani sono stati diagnosticati circa due settimane dopo rispetto ai casi italiani, e fino a quattro settimane dopo nel caso di migranti provenienti da paesi con un basso Human development index6. In definitiva, i quasi 16mila stranieri (non si distuingue tra con e senza documenti) presi in esame hanno ricevuto una diagnosi quando la malattia era più avanzata e i sintomi più gravi. In generale, è stato osservato un gradiente inverso in base al quale il rischio di ospedalizzazione, ricovero in terapia intensiva e morte aumentava al diminuire dell'Hdi del paese di origine.
Una diagnosi ritardata nei pazienti stranieri potrebbe spiegare la loro maggiore probabilità di presentare condizioni cliniche che richiedono ricovero, sia ordinario che in terapia intensiva, nonché la maggiore probabilità di morte osservata in quelli provenienti da paesi a basso Hdi”. Iss.
Lo studio ipotizza che, tra le cause di questa diseguaglianza, ci sia il fatto che “l'assegnazione a un medico di base (il più probabile mediatore per la diagnosi precoce) avviene solo in presenza di uno status documentato”. E poi barriere linguistiche, amministrative, legali, culturali e sociali, il timore di perdere il lavoro o di dover restare assenti dal lavoro per isolamento/quarantena.
Un sondaggio dell’Organizzazione mondiale della sanità, che ha coinvolto oltre 30mila rifugiati e migranti nel mondo (e quasi 7mila in Europa) aggiunge una tessera al puzzle e conferma quanto ipotizzato dall’Iss: i principali motivi per i quali i migranti non hanno cercato assistenza medica in caso di sintomi sono legati al costo delle cure, alla paura di essere espulsi, alla mancanza di assistenza sanitaria o al fatto di non averne diritto. Tra le persone che non hanno cercato assistenza, il 18.6% non aveva uno status legale documentato, mentre quasi il 30% aveva un basso livello di istruzione.
Risulta infine che la maggior parte dei rifugiati e dei migranti intervistati abbiano preso precauzioni per evitare l'infezione. Quando non l'hanno fatto, spiegano, è stato perché non potevano: per esempio, degli intervistati in Europa, una piccola parte (77 persone) ha risposto che non era in grado di lavarsi le mani, poco più di 250 hanno detto che per loro è stato impossibile mantenere il distanziamento, mentre per oltre 330 è stato impossibile coprire naso e bocca con adeguati dispositivi di protezione. Ma è sulla possibilità di evitare i mezzi pubblici e di uscire di casa che ci sono state le più grandi difficoltà per almeno un intervistato su 10.